venerdì 28 novembre 2014

Un buco nero di nome Andrea

Avrei voluto esordire dopo due mesi rivolgendomi a te, o ancor di più a te e invece questa volta parlo a un buco nero.

Darei qualsiasi cosa per poter nuotare a ritroso nel tempo fino ai tuoi dieci anni, quando mi rubavi la chitarra, mi raccontavi i tuoi incubi e dovevo staccarti mani e piedi dal cancello di casa mia per portarti a scuola. In quel periodo avrei potuto avvisarti, prepararti meglio a quello che stava per succedere e probabilmente sarebbe stato saggio farti fare due o tre giri di bambagia tutto intorno per attutire le pugnalate degli anni a seguire, o avrei potuto portarti via con me e cambiarti colore per sempre, proteggendo i tuoi occhi da tutti gli spioncini appuntiti del mondo e facendoti conoscere altri mille padri migliori dell'unico che ti era capitato.

Qual è stato il tuo limite? Il tuo punto di rottura? Il mio non l'ho ancora raggiunto, ma tu mi hai portato a esplorare angoli di me così tremendamente bui che non immaginavo nemmeno esistessero.
Quando una notizia è troppo brutta per essere falsa, troppo innaturale per essere plausibile e troppo dolorosa per essere sopportata succede una cosa stranissima: il corpo le fa spazio. La carne si deforma, si contorce e si lacera, come se il dolore si facesse strada con un machete attraverso l'intricata giungla delle viscere. Ci scava dal di dentro e ci gonfia dal di fuori. Passa come un fiume in piena attraverso il varco che si è creato e poi se ne va, lasciandoti lì, a brandelli, fecondato da un nulla che cresce e ti riempie di vuoto.

Questo vuoto spaventoso, questo nulla amplificato ed elevato all'ennesima assenza è ciò che mi è rimasto di te ed è ciò che conserverò finché avrò respiro.

Occhi di bosco, soldato del regno, profilo francese, scusami per non aver capito quanto fosse profondo il tuo pozzo.